tabacchi fc, ovvero tabacchi football club, ovvero tabacchi fancazzisti, ovvero un blog creato da quelli che si ritrovano la sera a giocare a calcetto nel parco tabacchi, quello spicchio di verde fra via tabacchi (appunto) e via giambologna, a Milano. Ovvero un contenitore per metterci tutto quello che ci passa per la testa...

martedì, novembre 29, 2011


new york è un indescrivibile collage pirotecnico di sensazioni. avrei voluto scriverlo molto prima, questo mio terzo post dalla grande mela, ma a volte il tempo è stato tiranno, a volte altre cose da fare mi strattonavano con più urgenza, e a volte la stanchezza ha preso il sopravvento. le appiccicherò qui, queste sensazioni, un po' a casaccio, perché spesso è così che ho girato questa città, lasciandomi incantare senza una direzione.
le foglie rosse e le zucche arancioni, i pacchetti con le basket card di vent'anni fa al brooklyn flea, la coca cola zero al lampone.
questa città è piena di parchi, e poter abbandonare con tre passi il traffico e il caos sulla fifth avenue per ritrovarsi di fronte alla placida tranquillità di un lago enorme, pacifico e suggestivo, mi sembra semplicemente incredibile. central park è quasi una città a sè, fatta di alberi, verdi spazi aperti, alberi, grandi campi da gioco, ancora alberi. è molto facile perdercisi dentro. è molto piacevole, perdercisi dentro. c'è un altro parco che amo molto, più piccolo e più a sud, in pieno greenwich village: il washington square park è animato da scoiattoli un pò anfetaminici e aggressivi, studenti della nyu che leggono l'eneide o qualche mattone di diritto privato, e scacchisti un po' torvi pronti a sfidarti alla prima occhiata. c'è anche un improbabile monumento a garibaldi, finito lì chissà come. sono passato nella vicina washington mews per vedere se sul campanello del numero 3 c'era scritto mystère, ma niente da fare, però è davvero uguale ai disegni. a proposito di parchi, da queste parti il jogging è quasi una religione, e non si fermano nemmeno di fronte alla pioggia.
i ragazzi che giocano a baseball all'heckscher playground, chiamare un taxi semplicemente alzando un braccio, i caffè bollenti in bicchieroni enormi che non si riescono mai a finire.
i primi di novembre ho fatto un piccolo bagaglio con lo stretto indispensabile e mi sono trasferito con fau in un bell'appartamento sulla 25th, fra la settima e l'ottava avenue, un po' buio e non proprio pulitissimo, ma sicuramente confortevole. è a pochi passi dal chelsea hotel (i remember you well in the chelsea hotel... amori clandestini e omicidi efferati, fra le sue mura) e non molto lontano dal famoso grattacielo a forma di ferro da stiro. mi mancheranno le spese da whole foods, le colazioni con pane marmellata e musica al mattino presto, il suo sorriso dolce dietro la porta al mio rientro: a parte qualche piccola incomprensione (ci vuole pazienza, a sopportarmi) e due coinquilini un po' logorroici (e non proprio sveglissimi) la convivenza è andata bene!
la freedom tower in costruzione, l'anacronistica polizia a cavallo, le partite a biliardo con il mio compagno di viaggio.
la prima cosa che ho visto di manhattan è stata a suo modo allo stesso tempo sia poco americana che molto americana. chinatown non è new york, è pechino, e ogni cosa è inderogabilmente cinese, dalle scritte, alle facce delle persone, alle pubblicità, ai giornali, alla frutta sulle bancarelle, di forme e colori mai visti prima. poi attraversi una strada, e senza soluzione di continuità ti accorgi improvvisamente che sei in un altro altrove: gli ideogrammi lasciano spazio alle pizzerie, le scritte diventano fin troppo familiari e i tricolori garriscono sulle case: così, appiccicate l'una di fianco all'altra, passare da chinatown a little italy è abbastanza spiazzante.
berlusconi dimissionario sulla prima pagina del new york times, i giudizi sanitari sulle vetrine dei posti che servono da mangiare, la punta dei grattacieli che sparisce nei giorni nuvolosi.
sono stato a zuccotti park, ho gironzolato in mezzo ai protesters, fra i volantini, le spille, le tende e gli accampamenti di fortuna, la cucina improvvisata, la libreria all'aperto, i cartelli scritti a mano. anch'io a mio modo, per un'oretta, ho occupato wall street con loro. we are the 99%! ci sono tornato con fau dopo lo sgombero della polizia, e ho visto roberto saviano emozionarsi, tutti gli italiani in città accorsi lì per lui, e le sue parole contro la mafia e i pericoli dell'economia mondiale propagarsi come una onda, amplificate dal megafono umano.
il sidro caldo al green market di union square, le stelle sul soffitto della grand central station, i topi che passeggiano sui binari e ti attraversano la strada sulle banchine della metro.
il pay what you wish è davvero una fantastica invenzione: il met è semplicemente troppo vasto per visitarlo tutto, il guggenheim è piacevolmente elegante nella sua morbida ascesa lungo una spirale piena di bianco, il moma ha una fantastica notte stellata. ma il museo che mi ha colpito di più è fuori da new york: ellis island, per molti anni punto di approdo di milioni di immigrati verso una nuova speranza, è un passaggio obbligato per capire l'america di oggi, e non si può che restare a bocca aperta pensando a tutte le vite e i destini che sono transitati attraverso le sue mura.
il pastrami da katz là dove sally ha finto un orgasmo, le centinaia di mele lasciate fuori dal cubo dell'apple store alla morte di steve jobs, le scale antincendio aggrappate ad ogni casa.
in uno dei primi giorni qui mi sono issato fino alla 161st, su nel bronx, per raggiungere lo yankee stadium: siamo già in piena postseason, è una partita senza appello, dentro o fuori, gli yankees sono i favoriti, ed è comprensibilmente tutto esaurito da giorni. invece no, scopro che c'è ancora qualche biglietto, mi metto in coda ma un tipo mi soffia l'ultimo, all'ultimo secondo. e così mi accontento di ammirare l'imponente stadio da fuori e di tornare a casa a vedermi la partita in tv, dove gli yankees si fanno eliminare dai tigers chiudendo così prima del previsto la loro stagione. dunque niente mlb e niente nba (fra l'altro lo sciopero finirà giusto tre giorni dopo la mia partenza, che sfiga), la terrò buona come scusa per ritornare qui, prima o poi.
la soffice bianca gommosità dei marshmellow, riconoscere i posti dei film, i pound i galloni i fahrenheit e le spine diverse.
ho ballato, battuto le mani e cantato ad una messa: la first corinthian baptist church, su alla 116th, nel cuore di harlem, è un posto dedicato alla preghiera, ma di un tipo del tutto diverso da quello a cui siamo abituati, e la tristezza pesante e consunta dei nostri stanchi riti religiosi lascia spazio ad una colorata esplosione di musica. la rock band, i coristi scatenati, i testi delle canzoni che scorrono sui teleschermi e perfino il sermone del pastore che assomiglia al monologo di uno stand up comedian non hanno davvero niente di profano, perchè la gente balla e canta e si abbraccia con calore e sopratutto ci crede e alza le braccia in segno di devozione, e ha gli occhi illuminati: se c'è un dio da queste parti non lo so, so che qualcuno ha trovato un modo molto più divertente di provare a comunicarcelo.
i campetti di handball e i ragazzi che danno pugni alla pallina, le foto dell'undici settembre, gli oreo inzuppati nel latte.
continua... f

csxqp: phil ochs - "when i'm gone"