tabacchi fc, ovvero tabacchi football club, ovvero tabacchi fancazzisti, ovvero un blog creato da quelli che si ritrovano la sera a giocare a calcetto nel parco tabacchi, quello spicchio di verde fra via tabacchi (appunto) e via giambologna, a Milano. Ovvero un contenitore per metterci tutto quello che ci passa per la testa...

martedì, agosto 30, 2016



pelle olivastra schiaffeggiata dal vento, occhi scuri affilati dal sole, una ruga che ieri non c'era. il marinaio senza nome si sentiva liquido, fluido, informe ma potenzialmente polimorfo, pesce fuor d'acqua, hemingway al reparto surgelati di un discount di periferia. non era esattamente un lupo di mare: non sapeva destreggiarsi affatto con le scotte, e confondeva sempre babordo e tribordo. a dirla tutta una barca nemmeno l'aveva, e non sapeva nemmeno nuotare: ma che fosse marinaio lo sapeva nell'anima, e non gli servivano prove o dimostrazioni.
questo dunque faceva: boccheggiava, chiacchierava con gli albatros, sognava sulla mappa improbabili rotte, danzava con il maestrale e lo scirocco. navigava a vista insomma, però andando a piedi, un po' per innata repulsione alla velocità, un po' per mancanza di altri mezzi: ma un marinaio senza barca è un marinaio ribelle o un marinaio inutile? questo non gli importava affatto, ciò che invece davvero lo angustiava era che nella sua città, ammesso che ci fosse una città che davvero gli appartenesse, non ci fosse acqua, a cui confessare la propria traboccante inquietudine.
che poi anche se ci fosse stato un lago non lo avrebbe mai preso in considerazione: immobile, chiuso, più introverso di lui, un lago non avrebbe mai potuto intuire i pensieri che gli spumeggiavano dentro. anche un fiume, pensava, sarebbe stato solo un surrogato: pragmatico, concreto, borghese, nemmeno lui sarebbe stato in grado di capirlo fino in fondo. però il fiume lo invidiava, così come invidiava tutti quelli che sapevano sempre da che parte andare. niente da fare, il marinaio senza nome aveva bisogno del mare, proprio del mare, solo del mare, in tutta la sua salata vastità, per confidarsi con lui e affidargli i suoi pensieri, frammenti di senso e interpretazione raggrumati intorno ad un qualcosa di indefinibile, bianco capodoglio pronto ad inghiottirlo.
già, il mare, che spettacolo. il mare lo attraeva come il corpo di una donna, ne percepiva la stessa bellezza primitiva e assoluta, un identico richiamo ammaliante, ogni onda come ogni curva, lo stesso fascino magnetico e irresistibile a cui non sarebbe mai riuscito a sottrarsi.
così partì il marinaio senza nome, senza bussola o sestante, senza timone né vele: ovviamente a piedi, trascinando con sé nella sua valigia solo poche indispensabili cose: uno spazzolino consunto, l'ostinazione che hanno solo i pazzi, o i disperati, o gli utopisti, un paio di mutande, un paio di sogni, e la preghiera che il mare non fosse solo un altro miraggio inconcludente. ma forse è la vita stessa, ad essere un meraviglioso miraggio inconcludente.
non so dire quanto viaggiò, ma graffi si aggiunsero alla già ricca collezione sulla sua pelle olivastra. quando infine lo raggiunse, il mare era percosso dal sole, frantumato in mille schegge accecanti. eccolo, finalmente. si sedette di fronte a lui, gli occhi scuri due fessure profonde. respirò fino in fondo incertezza e salsedine e iniziò a raccontare: raccontò le sue bonacce e le sue burrasche, di come le acque in subbuglio avessero esondato, tracimato, distruggendo ogni argine o riva, e di come evitare accuratamente e sistematicamente di annegare fosse probabilmente il modo migliore per annegare veramente. raccontò di come una paura cattiva come una murena strisciasse intorno al suo stomaco, e di come alleviare le murene degli altri fosse il solo modo che gli fosse venuto in mente per fuggire dalla propria. raccontò anche di come avrebbe voluto essere meno fottutamente contemplativo, il che, detto seduto di fronte al mare, dava bene l'idea delle sue contraddizioni.
il mare ascoltò paziente, immensamente calmo. lo guardò per un attimo, poi nella sua salata saggezza gli scagliò un flutto addosso, che frangendosi contro lo scoglio su cui era seduto il marinaio senza nome lo bagnò da capo a piedi. che marea di cazzate, voleva dirgli. puoi fare di meglio, la gloria è nel movimento e nella temerarietà.
voleva dirlo, certo, ma non lo disse, perché il marinaio senza nome lo sapeva già, e non aggiunse altro, perché non c'era altro da aggiungere. tutto qui: il marinaio senza nome gli sorrise, issò le vele e salpò, circondato dagli albatros. f

csxqp: frank turner - "get better"

sabato, agosto 27, 2016


Il terremoto, una tragedia.

Ma questa volta non mi fermo al sensazionalismo indotto dai media, ma mi pongo una domanda: hanno valore solo i "nostri" morti? e il sostegno va dato solo ai "nostri" vivi? Perché, considerando gli avvenimenti degli ultimi mesi, è questo che mi sembra di percepire. E' una questione sgradevole da affrontare, che vi potrà apparire irrispettosa, ma sono stufo di questa ipocrisia diffusa, di tutto questo teatrino mediatico…
In un mondo dilaniato dai conflitti sappiamo piangere e interessarci solo di quello che riguarda noi, come se un "noi" distinto dal genere umano esistesse veramente. Mi sento in dovere di scriverlo, soprattutto adesso, che abbiamo un'opportunità, che possiamo fare qualcosa, adesso che affrontiamo la vicenda dei flussi migratori, di migliaia di persone che si affidano alle acque, e alla strada, per scappare, in cerca di un futuro, o quantomeno di pace… e che muoiono, a centinaia, nel silenzio, o quasi. Perché per loro tanta indifferenza? perché tanta ostilità nei confronti di vivi che potremmo salvare? perché non sono italiani? la nazionalità qualifica un essere umano? da valore all'individuo?
Credo che non potremmo definirci civili finché continueremo a non riconoscere l'uguaglianza e il diritto alla vita di ogni individuo. Esiste un'unica differenza, fra morti e vivi: uno lo si può piangere, l'altro lo si deve aiutare, permettendogli di restare tale, a prescindere da ogni qualsivoglia appartenenza nazionale sociale religiosa. Negare la solidarietà là dove si potrebbe è un delitto disumano.

Adesso che ci hanno ricordato cos'è la morte, la sofferenza, lo strazio di chi rimane, e ci hanno rammendato che la solidarietà verso i sopravvissuti è un valore, spero che molti inizino a riflettere, e prendano consapevolezza di cosa possono fare per gli altri.
Smettiamola con questa ipocrisia del "noi", affranchiamoci dalle ondate emotive indotte dei media, usciamo da questa logica e impegniamoci veramente per salvare ogni vita.

Forse è facile demagogia, retorica da due soldi, o forse basterebbe veramente così poco per cambiare le cose. y

clxqp: gregory david roberts - “shantaram”