È tanto che non mi confronto con il foglio bianco, tanto quanto la mia vita è stata attraversata da un episodio che mi ha emotivamente distrutto. Mi ero ripromesso di non scrivere finché non mi fossi riassestato, finché non avessi ritrovato la gioia di stare bene, senza dolori, ma questa attesa si è protratta troppo, e così sono dovuto scendere a patti, pormi dei piccoli traguardi, per poter andare avanti, uscire dal letto, e non abbandonarmi allo sconforto.
A gennaio è iniziato un prima e un dopo. Un prima in cui i problemi del lavoro erano la mia preoccupazione principale, ma in cui ero libero di fare quello che più rendeva felice, senza limitazioni. E un dopo in cui ho dovuto smettere di guidare, andare in bicicletta e giocare a ping-pong. In cui non potevo portare uno zaino in spalla, né tenere in mano le buste della spesa. Un dopo dove stare seduto era un supplizio, e trasportare dei pesi o una bottiglia d’acqua era impensabile. Tutto questo è vero ancora adesso, ma qualche progresso è stato fatto e questa è la ragione che mi ha permesso di prendere oggi il foglio e scriverne la storia. Il mio incubo è iniziato in Sardegna, quando qualcuno ha pensato che fosse divertente saltarmi addosso con i suoi 100 kg, trascinandomi per terra. Questo è l’antefatto con cui è iniziato un incubo fatto di dolori alla schiena, notti insonni e preoccupazioni, e che mi ha portato a quel calvario che dura da oltre cinque mesi. All’inizio ho minimizzato, nonostante la percezione che qualcosa di grave fosse successo. Ho sperato che il passare del tempo avrebbe risolto tutto. Così ho continuato come se niente fosse, dedicandomi a lunghe passeggiate, l’unica attività che non mi dava problemi. Ma dopo un mese il dubbio che non fosse la soluzione divenne una verità impossibile da ignorare. Da qui l'inizio dell'angoscia e dell'inquietudine, e l’inferno, perché questo è stato, delle visite mediche. Un vai e vieni dal medico di famiglia, a lottare, per avere un riscontro, e un minimo di empatia, mai pervenuta. E poi ricette e prenotazioni, visite specialistiche, lastre, laser terapia. Tanto e di tutto, ma senza nessun beneficio, solo tanto sconforto. Mi sono sentito veramente solo e impotente, di fronte ad una sanità pubblica incapace di dare risposte, ed una privata che si ti accoglieva subito, ma senza darti la sensazione di prendersi veramente a cuore il tuo caso. Ho capito che aver bisogno della sanità vuol dire condannarsi a vivere in un girone dantesco, dove si gira nella miseria e nell’abbandono agognando una risposta, in un caos generalizzato fatto di ticket e attese, appuntamenti e improvvisazione. Altri mesi passati così, allo sbando, senza sapere quale effettivamente fosse la causa di tutto questo, fino a quando, consigliato da una collega, non mi sono rivolto al suo fisioterapista di fiducia. Un incontro alla settimana, in cui ho sentito al mio fianco la presenza di una persona disposta a lottare con me, a fare dei tentativi, per sistemarmi pezzo dopo pezzo. Non sempre è stato semplice, spesso ho titubato, e ancora oggi non so se le cose sono state fatte tutte nel modo corretto, ma avere qualcuno convinto che sarei guarito è stato d’aiuto, tanto quanto la manipolazione del fisico. Dopo ogni seduta mi sentivo meglio, un dolore spariva, anche se ne usciva uno nuovo dove prima non c’era. È stato un periodo in cui mi sono costantemente analizzato, ho soppesato ogni azione, valutandone l’impatto e la reazione del fisico. Ero uno scienziato che annotava cosa andava bene e cosa no, cosa fare e cosa no, nell’attesa di poterne discutere con chi poi mi avrebbe dato una risposta. Settimane di incontri, di domande, in cui tutto aveva un principio, una spiegazione, un razionale. Ma ad un certo punto mi è stato detto che altro non si poteva fare, tutto dipendeva dal coccige, deviato, così come risultava dalle lastre. Ho dovuto prendere una decisione, se volevo guarire andava raddrizzato. L’alternativa era non risolvere, non vivere, mentre io volevo lasciarmi tutto alle spalle, e riprendere la vita così come l’avevo sempre conosciuta, libero. Perché è proprio questo il punto, ad un certo punto mi sono sentito vulnerabile, incatenato, impossibilitato nel fare. Ho abbandonato progetti, cammini, acquisti, sogni, semplicemente perché non potevo più portarli avanti. Tutto quello che mi dava gioia era precluso, e il pensiero era sempre fisso a ciò che non potevo più fare. Ero troppo abituato a vivere senza preclusioni, e questa nuova condizione mi uccideva. Non stavo più vivendo. Non volevo vedere più nessuno, né fare alcunché. Esisteva solo il dolore, l’incertezza della diagnosi e delle cure, la paura che potesse essere cronico. Ero tormentato da questi pensieri. Mi sono sentito solo, ho voluto essere solo, isolandomi. Alla mia famiglia ho nascosto tutto, e a domande specifiche ho sempre minimizzato. Poi un giorno il medico del lavoro, che era venuto in ufficio per una visita prevista dalla legge, mi ha dato la scossa. In modo spontaneo e disinteressato ha fatto un passo in più, che esulava dal motivo per cui era lì. Vedendomi turbato ha voluto spostare l’attenzione dalle questioni meramente burocratiche alla mia realtà, e in pochi minuti mi ha aperto gli occhi. Mi ha raccontato cose che mi hanno lasciato stupefatto. Avevo le lacrime, aveva capito la profondità della mia angoscia, di quel disagio da cui non riuscivo a staccarmi, e semplicemente mi ha ricordato che spesso è tutto nella nostra testa. È bastato questo per aggiungere un tassello alla guarigione e portarmi lì dove sono adesso. Non è cambiato molto da gennaio, ancora lotto contro alcuni dolori, ancora ho bisogno dell’aiuto degli specialisti, ancora mi domando quale sia il prossimo step, quali esercizi mi facciano bene, cosa posso fare e cosa no. Ma ho capito che ho altre possibilità, che la vita non è finita, che ci sono persone messe tanto peggio che nella gravità della loro situazione non hanno mollato, e continuano a vivere a testa alta. Se non posso più andare in bicicletta andrò in piscina. Se non posso portare lo zaino andrò in montagna leggero. Se non riesco a stare seduto mi porterò un cuscino che mi dia sollievo. E così sto facendo. Non è il massimo ma è quello che adesso la vita ha da offrirmi. Non posso più rimuginare sui se e sui ma. Ne cullarmi nel rancore per chi ha causato tutto questo. È una realtà che devo accettare così com’è, con la speranza che un giorno tutto si sistemi. Per questo parlo di un prima e di un dopo, Un prima in cui non ero consapevole della precarietà della vita, e di quanto molte cose fossero futili, e un dopo in cui mi sono svegliato da un bel sogno con il culo per terra. Ho rivalutato l’esistenza, in primis il lavoro, e ridato a molte cose la giusta dimensione. Bisogna vivere il momento, adesso, senza aspettare tempi migliori, perché del futuro non v’è certezza.
Ho avuto paura, e ancora ho il timore che non guarirò, che il dolore resterà, cronico. Ho sentito dire che il dolore fa parte del viaggio, non lo sapevo, e non lo aspettavo così presto, perché non mi sono mai reso conto che il tempo stava passando veloce, e che non sono più un ragazzino. Credevo che avrei vissuto all’infinito così come sempre, in salute, ma scoprire che la verità è diversa è stato un colpo difficile da sopportare. Adesso ho fatto pace con quanto sto affrontando, ma sono convalescente, perché riconosco che nella mia mente l’equilibrio è debole, precario. C’è una flebile speranza, a cui non voglio ancora credere, così resto coi piedi per terra, pensando solo al presente. Mi sento una persona diversa. Tutto quanto successo mi sarà d’aiuto, e forse mi farà crescere, dandomi nuove consapevolezze.