tabacchi fc, ovvero tabacchi football club, ovvero tabacchi fancazzisti, ovvero un blog creato da quelli che si ritrovano la sera a giocare a calcetto nel parco tabacchi, quello spicchio di verde fra via tabacchi (appunto) e via giambologna, a Milano. Ovvero un contenitore per metterci tutto quello che ci passa per la testa...

domenica, febbraio 19, 2023

 


era un buon gabbiere il nostro. era mezzo cieco e lo ritrovavamo spesso addormentato, rannicchiato nella coffa, ma era l'unico dell'equipaggio che non soffrisse di vertigini, e tanto bastava perché con l'occhio buono facesse anche la vedetta. fu il suo grido a giungere come uno schiaffo, improvviso e inaspettato, sulle nostre guance scavate dal sole e dalla salsedine
terra!
ci fu un attimo di barcollante silenzio, così breve da non darci il tempo di incassare il colpo, così intenso da ammutolire il mare e il vento. poi lo stesso identico grido risuonò altre tre volte
terra! terra! terra!
una raffica di esclamazioni che ci mise alle corde, la temuta conferma che non si trattava di un abbaglio dell'occhio sguercio. era lo sgomento, e non il sollievo, a fargli tremare la voce: lo sapeva bene il gabbiere. lo sapevamo tutti del resto: io, il primo ufficiale, il secondo, ogni marinaio fino all'ultimo mozzo, lo sapevano forse anche gli albatros, che volando sulle nostre teste ci avevano sempre accompagnato durante la navigazione, scagazzando con precisi e instancabili bombardamenti il ponte di coperta.
sapevamo che quello dritto davanti a noi non sarebbe stato un approdo come tutti gli altri, di quelli che ogni tanto si rendevano necessari per fare rifornimento o riparare la nave, obbligate parentesi di terraferma per ripartire e andare avanti. eravamo consapevoli che quello era un approdo senza un poi. certo, non ci sarebbero state più tempeste dopo, a mettere in pericolo le nostre vite, ma nemmeno avventure, né incontri, né rum e bordelli, né tramonti osservati dal castello di prua, né vento a dettare, con il suo soffio capriccioso, il ritmo sbilenco del nostro peregrinare.
sapevo che appena attraccati mi avrebbero destituito dall'incarico, congedato dal comando e tolto i gradi, e, cosa ancora peggiore, dei miei marinai non avrei saputo più nulla. erano decisioni irrevocabili della marina, sulle cause esistevano solo congetture astratte, e non spiegazioni certe. quanto al nostro brigantino è vero, è un po' acciaccato, ogni tanto perde dei pezzi, l'albero di trinchetto a volte oscilla più di quanto non dovrebbe e non riusciamo a togliere la muffa dal velaccio, ma ne ha viste tante ed è sempre rimasto in piedi. può ancora dire la sua insomma, e invece probabilmente è già stato venduto a qualche spregiudicato mercante di legname, che ne farà credenze, o combustibile per stufe. è tutto insensato.
mi accorsi di avere addosso gli occhi della ciurma, che senza darlo a vedere aspettava impaziente una decisione. cercai di raccogliere le idee sparpagliate dal vento, quelle poche almeno che non erano ancora finite in mare, ingoiate dai flutti. certo, da adesso in poi ogni secondo che passava eravamo un secondo più vicini all'approdo, e questo pensiero mi impediva di ragionare lucidamente. così scesi in coperta, come facevo sempre quando si avvicinava una tempesta e dovevo consultare le carte per decidere una rotta, e mi serrai nel buio della mia cabina.
l'approdo, accidenti.
mi agitai.
poi, mi calmai. del resto agitarmi di più non era possibile, né mi avrebbe aiutato a trovare una via d'uscita.
così pensai, pensai a lungo, e soprattutto pensai a questo:
a che scopo, ora, conservare la nave, preservarla dagli urti spietati del mare? dovremmo graffiare l'acqua e mordere le onde, ecco cosa dovremmo fare, sentire gli scricchiolii dello scafo lanciato a tutta velocità verso un qualsivoglia orizzonte. e se l'albero di trinchetto deve cadere, beh, al diavolo, che cada, lo ritireremo su. lo schiocco delle vele gonfiate dall'impeto furioso del vento dev'esserci amico: cuciremo ogni strappo, come abbiamo sempre fatto.
si naviga una volta sola.
uscii dalla cabina e risalii in coperta, inciampando sulla stretta e ripida scaletta che portava in superficie. imprecai a lungo, e a voce alta, come sempre quando mi trovavo sotto pressione, poi, insostenibili, mi abbagliarono la luce improvvisa del sole e gli sguardi dei marinai che imploravano speranza.
li guardai anch'io, uno a uno, e mi accorsi di volere bene alla mia ciurma di pendagli da forca, barbe incolte, mani consunte, camicie a brandelli, ma cuori grandi. poi volsi gli occhi al mare e alla direzione dell'approdo. l'enorme pinna caudale di una balena, da molto lontano, sembrò mandarmi un saluto prima di scomparire con grazia sott'acqua, quasi volesse darmi manforte: è la decisione giusta, sembrava suggerire. mi diede più sconforto che incoraggiamento però: cosa diavolo ci fa una balena a queste latitudini? eravamo dove pensavamo di essere o le nostre mappe si stavano tragicamente sbagliando? questo pensiero mi si conficcò dolorosamente nel cervello, sapevo di non avere una risposta. così imprecai nuovamente, nuovamente a lungo, ma questa volta in silenzio. infine, mi decisi a dare l'ordine
virare a babordo!
il nostromo sorrise, sfoggiando sotto gli occhi allegri i pochi denti superstiti, e si aggrappò con forza al timone per farlo ruotare. feci risuonare lo stesso identico grido altre tre volte
virare a babordo! virare a babordo! virare a babordo!
una raffica di esclamazioni che riportò l'entusiasmo sul brigantino. i marinai gridarono felici, prima di rimettersi al lavoro. il vento riprese a ruggire.
ci avrebbero ricercato per ammutinamento, o forse saremmo diventati pirati.
o forse ancora, essendo tutto completamente inutile, non ci avrebbe cercato nessuno, qualsiasi direzione sarebbe stata lo stesso, e per sempre avremmo convissuto con l'ombra di quell'approdo.
ma se c'era un senso, era nel mare. f

csxqp: lo stato sociale + vasco brondi - "fottuti per sempre"

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